Eugenio Barba

Italian Eugenio Barba is the leader, director and inspirer, of Odin Theatre, Denmark's most renouned theater, a troupe which performs extensively all over the world. He lives in Holstebro, Denmark, the home of Odin Teatret.

L'albero e le sue radici
Uno spettacolo che cresce leggendo i giornali


Come mostrare un sacrificio umano a teatro? Perché farlo? Per esorcizzare il proprio sgomento? Per sfida professionale? Perché è qualcosa che va aldilà della mia comprensione? Un uomo immola freddamente

un altro uomo, una donna, un bambino: voglio fare uno spettacolo su questa situazione che leggiamo ogni giorno nei giornali. “Volare” è la prima parola che mi è passata per la mente come titolo provvisorio. Apre a nuovi modi di pensare e a immagini lontane, capaci di ispirare gli attori e me nella prima fase delle prove. Il titolo di uno spettacolo ne è la premessa. Dovrebbe anche essere una promessa a "svolazzare" alto.

Il teatro ci permette di lasciare quello che abbiamo e conosciamo per quello che desideriamo e che ignoriamo di sapere. È una tecnica per scappare da casa, e questa fuga costruisce una casa. La casa sembrerebbe lo spettacolo - transitorio e pronto ad essere spostato in diversi luoghi. Ma questo è solo il miraggio della casa: un’illusione come l’amore o la celebrità. La casa di cui parlo ha fondamenta flessuose: le relazioni di lavoro che maturano ed evolvono con il tempo. La casa si costruisce con slanci di passione che si rivolgono a vivi e a morti. Il passare degli anni e l’esperienza che annebbia la vista trasforma le passioni in confidenza, tenerezza, appartenenza. Nomadismo di legami che il tempo calcifica.

Judy mi ha messo da parte un articolo di Jonathan Stock nel Der Spiegel e pubblicato nel quotidiano danese Politiken nel novembre 2013: “Un cannibale e criminale di guerra ha fiducia nella salvezza di Dio.” Joshua Milton Blahyi, nato nel 1971, e soprannominato “Il generale tutto nudo”, comandava un piccolo esercito di bambini soldato durante la prima guerra civile in Liberia nel 1990. Noto per le sue maniere selvagge ed eccentriche, guidava all’attacco le sue giovani truppe tutto nudo, ma con le scarpe. Sacrificava regolarmente una vittima umana prima di un combattimento, di solito un bambino il cui sangue avrebbe soddisfatto gli spiriti e avrebbe reso invulnerabili lui e i suoi giovani guerrieri.

Blahyi ha riflettuto a lungo quando i nove membri della Commissione della Verità hanno chiesto quante erano state le sue vittime. Ha risposto: “Almeno 20.000”. Ha aggiunto: “Ho reclutato bambini di 9-10 anni. Ho piantato in loro la violenza spiegando che uccidere era un gioco. Quando ferivo o uccidevo un nemico ne aprivo il petto e divoravo il suo cuore ancora palpitante. Il cadavere lo lasciavo ai miei bambini-soldato che lo tagliavano a fette per diventare insensibili verso il nemico.” I suoi bambini soldato scommettevano se una donna gravida lo fosse di un maschietto o una bambina prima di squarciarle il ventre e scoprire chi avesse ragione.

Dopo la guerra civile, Blahyi si è convertito al cristianesimo ed è diventato predicatore evangelico. Attualmente è Presidente della End Time Train Evange- listic Ministries Inc, con sede centrale in Liberia. È sposato al pastore Mrs. Josie e ha quattro figli.

Il libro di Stephen Ellis The Mask of Anarchy. The Destruction of Liberia and the Religious Dimension of an African Civil War tratta della guerra inter-tribale in Liberia 1999-2003: 250.000 morti, un milione di persone in fuga dal paese, 20.000 bambini-soldato si coprono il viso con maschere di Halloween e parrucche di donna, divorano i cuori delle vittime e decorano gli incroci delle strade con ossa di morto. I generali delle varie milizie e fazioni prendono nomi dai film, dai giornali e dalla religione: generale Rambo, generale bin Laden, generale Satana. L’autore descrive il ruolo fondamentale della religione a dei rituali nello sviluppo e nell’intensificazione della brutalità di questa guerra. “La preparazione spirituale delle reclute era tanto importante quanto il loro addestramento militare. Parte della preparazione consisteva in un rituale reminiscente di cerimonie tradizionali d’iniziazione durante i quali i giovani combattenti erano tatuati sulla fronte o ricevevano tagli sulle guance per renderli invulnerabili. A volte si sparava contro di loro con fucili caricati a salve per dimostrare che la protezione era efficace.”

Nando Taviani, il nostro consigliere letterario, mi racconta di un contadino che ha un pero che non dà più frutti. Lo abbatte e con il legno costruisce un crocefisso con il Salvatore. Suo figlio si ammala gravemente. Il contadino si inginocchia davanti al crocefisso e supplica Cristo di salvare il figlio ammalato.

Il figlio muore. Il contadino inveisce: “Quando eri un pero non davi frutti, sostieni il figlio di Dio e non fai miracoli”. Il contadino volta le spalle e va via. Il crocefisso fiorisce e si copre di pere.

Primo abbozzo narrativo: un contadino si crede Cristo e pianta un pero. L’albero cresce morto. Ne fa una croce e crocifigge se stesso. La madre di un bambino soldato porta il figlio morto e chiede di risuscitarlo. Blahyi, il signore della guerra liberiano, arriva e, come il Grande Inquisitore di Dostoievskij, la manda via. L’albero/crocefisso fiorisce e si copre di pere. Un’altra possibilità: il contadino, appeso alla croce, consiglia alla madre con il cadavere del figlio tra le braccia: seppellisci il tuo morto perché rinasca come fiori e frutta.

L’albero è una scultura vivente. Cresce sotto gli occhi dello spettatore come un cadavere in piedi. Una bambina si arrampica tra i suoi rami, gioca, sogna, scruta l’orizzonte, parla agli uccelli. L’albero è abbattuto a colpi di accetta. Un ramo viene spezzato e messo di traverso come una croce in attesa del primo innocente che passi. L’albero geme quando viene colpito. Sanguina: sangue bianco, denso e melmoso come pus. Arriva un bambino soldato che trasuda sangue bianco. Si abbracciano. L’albero fiorisce.

Potrebbe essere l’albero del Bene. Un bambino buono vi è legato con una catena, come un cane. Sogna quello che fa il bambino malvagio. Il bambino è la voce della speranza. Abbaia: “Questo albero senza foglie sfamerà l’umanità”. Una bambina sull’albero gioca con le sue bambole, racconta favole e, per farle addormentare, canta loro una ninna nanna.

L’albero in Giappone. Tre haiku di Basho:

Affaticato mentre cerco l’albergo mi scopro sotto i fiori di un albero.

Sotto l’albero tutto si copre di petali di ciliegio pure la zuppa e il pesce sotto aceto.

La primavera parte pianto degli uccelli sugli alberi e lacrime negli occhi dei pesci.

Trovato il secondo personaggio di Volare: un signore della guerra europeo. Il serbo Željko Ražnatović (1952-2000), conosciuto sotto il nome di Arkan, la tigre. Era il criminale più ricercato dall’Interpol per i suoi assalti alle banche e gli omicidi commessi in vari paesi europei negli anni ‘70 e ‘80. Sicario della polizia segreta jugoslava, aveva il compito di liquidare gli oppositori del regime in esilio all’estero. Durante la disintegrazione della Jugoslavia (1991-1999) creò una forza di giovani para-militari, che con il nome di “tigri di Arkan” iniziarono i primi massacri di pulizia etnica e parteciparono a molti altri con le forze armate serbe. Arkan è stato il più spietato e potente signore della guerra nei Balcani, accusato dall’ONU di crimini contro l’umanità. Morì assassinato nel 2000. Più di 200.000 civili sono stati uccisi in Bosnia e Croazia, decine di migliaia di donne violentate, alcune di loro più di cento volte, mentre i loro figli e mariti erano battuti e torturati nei campi di concentramento di Omarska e Manjaca. Milioni hanno dovuto abbandonare le loro case durante il processo di pulizia etnica.

Il massacro di Srebrenica è stata la peggiore operazione di pulizia etnica in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Il massacro cominciò il 6 luglio 1995, quando le truppe serbe agli ordini del generale Ratko Mladić e i paramilitari serbo-bosniaci di Željko Ražnatović, la “tigre” Arkan, avviarono un’offensiva nei confronti della città bosniaca di Srebrenica a maggioranza musulmana. Nella sola giornata dell’11 luglio 1995 tolsero la vita a 8.372 persone. Secondo numerose associazioni i morti sarebbero stati oltre 10.000.

Srebrenica fu la prima “zona sicura” al mondo creata dalle Nazioni Unite. I militari olandesi del DUTCHBAT stazionati per proteggere la popolazione locale musulmana, consegnarono 300 persone rifugiate nella loro caserma alle truppe serbe. Secondo alcune testimonianze i DUTCHBAT aiutarono i serbi a separare donne, bambini e anziani dagli uomini che vennero massacrati. Negli anni ‘90 le accuse rivolte dalla stampa olandese ai DUTCHBAT furono feroci e molti militari di stanza in Bosnia soffrirono di sindrome da stress post-traumatico. Il 4 dicembre 2006 il Ministro della Difesa olandese decorò con cinquecento medaglie il battaglione di pace che aveva il compito di proteggere Srebrenica. Il 16 luglio 2014 un tribunale olandese emise una sentenza storica: Il DUTCHBAT, il battaglione dei caschi blu dei Paesi Bassi, che nel 1995 era schierato a protezione dell’enclave musulmana, non difese adeguatamente i civili. Lo stato olandese è quindi responsabile della loro morte.

Un po’ di filosofia. La funzione che Aristotele assegna al teatro: confrontare lo spettatore alla compassione e all’orrore della condizione umana. Sembrerebbe un Brecht contemporaneo. O sono io che interpreto male?

Decapitazioni. Tutta la mia cultura è piena di teste mozzate. Le ho ammirate in tante opere d’arte nei musei che sono l’orgoglio delle capitali europee: Perseo e la Medusa, Giuditta e Oloferne, le decapitazioni da parte di Achille, Agamennone, Diomede e Patroclo nell’Iliade, Salomè e San Giovanni Battista, Cicerone, San Paolo, Anne Boleyn, Thomas More (l’ingegnoso inventore dell’Utopia), Mary Stuart, André Chénier, Danton (liberté, égalité, fraternité). Nella Roma imperiale, la decapitazione era la pena di morte riservata ai cittadini romani poiché ritenuta rapida e non infamante; per gli schiavi, i ladroni e gli stranieri, invece, si applicava la crocefissione. Fino al XVIII secolo in Europa la decapitazione era considerata un metodo di esecuzione “onorevole” riservata ai nobili; i borghesi e i poveri erano puniti con metodi dolorosi, come lo squartamento.

Benvenuto Cellini: statua di Perseo con la testa di Medusa (Firenze)

Le Monde, 3 agosto 2014. Nel nord dell’Iraq, soldati di ISIS - lo Stato Islamico - attaccano e occupano la città di Sinjar abitata prevalentemente da yazidi. I soldati di ISIS seppelliscono vivi numerose donne e bambini, trucidando uomini e vecchi in un massacro che è definito genocidio. 200.000 persone si rifugiano sulle montagne circostanti senza acqua e cibo. Nel villaggio di Kojo, la popolazione riceve l’ultimatum dagli jihadisti di convertirsi o morire. Molti anziani rifiutano e vengono fucilati. Migliaia di donne e bambini sono rapiti, dati come bottino a soldati jihadisti o venduti come schiavi. Le donne sono violentate, spesso esaminate prima da dottori per controllare se sono vergini o incinte. Chi sono questi yazidi? Una minorità religiosa distribuita nei distretti di Mosul (Iraq), Diyarbakir (Turchia), Aleppo (Siria), Armenia, Caucaso e Iran. La loro religione combina elementi zoroastriani, manichei, ebraici, cristiani e islamici (Encyclopaedia Britannica).

Ancora due personaggi di Volare. Sono due monaci yazidi che, nel loro eremo nel deserto della Siria, scoprono che gli uccelli sono volati via. Per invogliarli a tornare, piantano un albero che darà ombra e cibo. Lo curano con acqua, concime e preghiere. L’albero cresce, maestoso e possente. Ma è secco, morto. I due monaci si affannano per riportarlo in vita, farlo fiorire e dar frutta. Cantano, fanno penitenza, costruiscono nidi, si dedicano ad arcaiche cerimonie di magia. Intorno a loro, gesta di guerra, obbrobri e barbarie si avvicendano imperturbabili.

Quotidiano danese Politiken, 21 gennaio 2015. Dimostrazioni contro la Francia in Pakistan, Iran, Cecenia, e in diversi paesi africani a causa dei disegni su Maometto pubblicati su Charlie Hebdo. A Gaza viene bruciata la bandiera francese per strada. In Niger si appicca fuoco alle chiese cattoliche e si uccidono i cristiani per strada.

Prime prove di Volare (Colombia, febbraio). Guardo i miei attori svolgere il loro lavoro. Si aggirano cauti, quasi diffidenti, intorno all’albero secco dei due monaci yazidi. È la garanzia per uno spettacolo che dovrebbe inserire una spina nelle nostre certezze. Erano i mapuche o gli haida che dicevano: gli alberi sono le colonne del mondo. Quando gli ultimi alberi saranno tagliati, il cielo cadrà sopra di noi.

I poeti dicono: "Le foreste precedono i popoli, i deserti li seguono" (François-René de Chateaubriand). "L’albero addormentato pronuncia oracoli verdi" (Octavio Paz). "Il frutto è cieco. Chi vede è l’albero" (René Char).

Tu vedi lo spettacolo e lo spettacolo vede te. Questa doppia visione - relazione o consapevolezza appena intuita - illumina e disturba. Riconoscere, associare, intendere, organizzare i dati che i sensi registrano e la memoria ha già immagazzinato: il cervello umano non smette di operare in questo modo. È un riflesso naturale nello spettatore la necessità di afferrare l’idea generale dello spettacolo: di che si tratta, che racconta, chi è questo personaggio, perché dice o fa qualcosa. Questo processo cognitivo dà sicurezza e gratificazione. Ma quello che trascende questo processo e rende incomparabile lo spettacolo teatrale come esperienza di un’esperienza è la capacità animale degli attori. È la loro capacità di dare vita a una fitta trama di dettagli sensoriali che colpiscono la parte rettile e limbica del cervello e penetrano nella fisiologia arcaica e nel più profondo della biografia del singolo spettatore: gesti apparentemente incoerenti nel contesto di una data situazione; movimenti enigmatici o solo in parte riconoscibili; ritmi sfasati; forme e colori; orchestrazione di parole, suoni, assonanze e intonazioni; azionireazioni come una discontinua linea musicale; simultaneità e successione di immagini, concetti, avvenimenti, silenzi e immobilità; pluralità di scansioni contrastanti - un flusso che ostacola l’intendimento dello spettatore, che spinge a scrutare a lungo un dettaglio e risveglia il riflesso di stare in guardia. Questa giungla di dettagli genera la vera visione dello spettacolo, una visione sconnessa, che non si lascia addome- sticare a spiegazioni concettuali. Questa visione appartiene al dialogo solitario dello spettatore con se stesso durante e dopo lo spettacolo. Lo spettatore, come un entomologo, dialoga con i colori e i disegni delle ali delle farfalle che la sua rete è riuscita a catturare.

Gli esperti scrivono di Velázquez che era capace di dipingere l’aria. Nei suoi quadri il pittore spagnolo “faceva il vuoto” intorno alle figure e agli oggetti che apparivano circondati d'aria su fondi che erano neutralizzati grazie a raffinate colorazioni miste e inafferrabili. A teatro, come possiamo creare un simile effetto di “vuoto” intorno all’essenziale?

L’attore fa un training fisico e vocale quotidiano. In che consiste il training del regista? Rispondo: leggo molto e di tutto. Così, per coincidenza o destino, mi sono ritrovato a leggere Metà di un sole giallo, un romanzo di

Chimamanda Ngozi Adichie (Enaudi, Torino 2008). L’azione si svolge durante la guerra civile in Nigeria (1967-1970) in seguito al tentativo di secessione delle province sudorientali di etnia igbo come Repubblica del Biafra. L’azione militare del governo centrale nigeriano portò la popolazione di intere regioni a essere decimata dalla fame. L’organizzazione non governativa “Medici senza frontiere” venne fondata nel 1971 da Bernard Kouchner e altri medici francesi in seguito alla loro drammatica esperienza in Biafra.

Un nuovo personaggio di Volare spunta da una pagina del romanzo di Chiminanda Ngozi Adichie: “Olanna era seduta sul pavimento del treno, le ginocchia piegate contro il petto, nel calore e la pressione sudata dei corpi intorno a lei, tra persone che piangevano, urlavano, pregavano. Il treno era una massa di metallo sballottante. Olanna fu scaraventata contro la donna accanto a lei, contro una grande ciotola, una calabasse. La donna la teneva in grembo coperta da una stoffa punteggiata da macchie che sembravano sangue. L’acca- rezzava in silenzio, con un ritmo gentile. Un giovane di fronte a lei gridò e si porto le mani alla testa. Il treno sbandò e Olanna andò di nuovo a sbattere contro la calabasse. La donna la sollevò delicatamente, poi fece segno a lei e alle persone vicine: ‘Venite’, disse. ‘Guardate!’ E spostò la stoffa dalla calabasse.

Lo sguardo di Olanna si fissò sulla testa della piccola ragazza, la pelle cenerognola, le treccine ben pettinate, gli occhi bianchi rotolati all’indietro, la bocca aperta come una O di sorpresa. Qualcuno gridò. La donna ricoprì la calabasse. ‘Se sapeste quanto tempo mi prendeva farle le treccine. Aveva i capelli spessi.’

Dopo aver scritto questa pagina, l'autrice ricorda le donne tedesche che abbandonarono Amburgo con i corpi carbonizzati dei loro bambini nelle valigie, e le donne in Ruanda che raccoglievano i brandelli dei loro bambini fatti a pezzi. Si guarda bene da fare paralleli.”

Questa anonima madre igbo si è infilata tra i personaggi di Volare. Il suo nome è Furia. È un’igbo cristiana e fugge da un massacro perpetrato dagli haussa musulmani. Cerca scampo per se stessa e per la testa della figlia. Sa solo ringhiare: “Non c’è morte in questo mondo, solo dimenticanza.”

Alberi in Cina. "Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce" (Lao Tzu). "Il momento migliore per piantare un albero è adesso" (Confucio).

Africa: alberi e rituali. “Come drammaturgo professionale ho un atteggiamento parziale riguardo ai rituali. Ce n’è uno però che vorrei che il mondo non avesse mai conosciuto. Questo rituale si svolgeva sulla costa dell’antica città di Ouidah, nell’attuale Repubblica del Benin, e il suo centro era un albero: l’Albero della Dimenticanza.

Questa era la sua funzione: quando arrivavano gli schiavi dalle città del retroterra e da altri luoghi dell’Africa Occidentale - di solito vittime di guerre e incursioni scatenate a questo scopo - le vittime erano rinchiuse in staccionate, fortini e nelle prigioni sotterranee del castello. Prima dell’imbarco, però, erano sottoposte a un rituale che consisteva nel muoversi in circolo intorno all’albero infame. Lo scopo era far dimenticare la loro terra, le loro case, la loro famiglia e anche le molte occupazioni che avevano conosciuto. In breve, dimenticare l’esistenza precedente, lavare le loro menti dal passato e renderle ricettive all’impronta di luoghi stranieri. Questi mercanti di carne della loro gente erano consapevoli che il loro atto costituiva una trasgressione profonda e cercarono di prevenire rappresaglie attraverso un rituale. Mai ottimismo è stato così mal riposto. Come rituale, fu un fallimento completo. Gli schiavi non dimenticarono mai. Quanti di questi alberi - anche simbolici - esistono, nei panorami degli altri popoli, delle altre razze e nazioni?” (Wole Soyinka, Of Africa, Yale University Press, New Haven and London, 2012).

È impossibile disapprendere. Ho passato metà della mia vita sforzandomi ad apprendere e l’altra metà lottando per andare oltre quello che avevo appreso. Nel lavoro ritornano costantemente riflessi, pensieri, procedimenti e soluzioni il cui sapore mi è noto. Ho la sensazione che fa parte della condizione umana essere in famiglia con gli alberi che cambiano le foglie e conservano le radici. Cerco di cambiare le idee, esprimerle in forme, ritmi e modi diversi, usare quello che so in modo paradossale. Ma i princìpi affondano solidi nella profondità del mio essere.

Ogni creazione procede attraverso una successione di distruzioni, diceva Picasso. La parola distruzione è drammatica, ed evoca rovina e morte. Eppure è innegabile che un irrefrenabile avvicendamento di erosioni o distillazioni - una trasmutazione - accompagni le prove di uno spettacolo. Da un lato percepiamo una sensazione di crescita, approfondimento e complessità, dall’altro siamo testimoni della liberazione di prospettive e corrispondenze che stravolgono (distruggono ovvero ricreano diversamente) i risultati delle fasi precedenti. Nelle antiche credenze dell’antico Egitto, Grecia ed Europa medioevale, vi erano tre stadi fondamentali nella trasmutazione della materia:

Nigredo o opera al nero, in cui la materia si dissolve, putrefacendosi; albedo o opera al bianco, durante la quale la sostanza si purifica, sublimandosi; rubedo o opera al rosso, che è lo stadio in cui gli elementi si fissano in una ricomposizione dalla natura irriconoscibile. Esiste una strana analogia tra i principi del lavoro d’attore e quello dell’alchimista. Lo ammetto ora che sono alla fine della mia carriera, perché ho sempre sorriso con condiscendenza delle idee di Artaud. La parte essenziale del processo teatrale avviene in un segreto impenetrabile persino ai suoi autori - attori e registi. È la zona della mutezza. Nonostante le nostre intuizioni e certezze, non c’è modo di parlarne perché è privo di prove accertabili per coloro che non sono passati per la stessa esperienza.

Bambini-soldato e cannibalismo. Un paio di pagine del romanzo di Jakob Ejersbo: “Frans è abbastanza alticcio e vuole saperne di più sul lavoro di suo padre. ‘In Africa - dice Frans - hai incontrato bambini-soldato.’ ‘Si, sempre ci sono bambini-soldato’ dice il padre. ‘Perché?’ ‘Più sono giovani meglio è. I giovani non immaginano minimamente che possono morire. E c'è un misto di ignoranza e religione in questo.’ ‘Ma hai combattuto contro i bambini? Hai sparato loro?’ ‘Hai scelta quando circa venti ragazzini dodicenni ti vengono incontro con machete e AK47? Vuoi chiamare l’UNICEF? Quei ragazzi credono che i miei proiettili non li possano ferire. Lo dice lo stregone, che è una vera autorità.’

‘Ma lo vedono che i loro compagni cadono?’ ‘Si, ma sanno anche che verranno uccisi dai loro ufficiali, se non vanno all’assalto’, dice il padre. ‘E sono drogati’, aggiunge Alison. ‘Si, anche; ubriachi e fatti. Insomma Frans, tu pensi a loro come ragazzi che potrebbero giocare con i trenini. Fondamentalmente buoni. Quei ragazzini hanno assistito all’assassinio delle loro famiglie. Sono stati incitati a stuprare donne adulte rapite dai loro stessi villaggi. Sono stati obbligati al cannibalismo. Non sono più ragazzini.’

‘Cannibalismo?’ ‘Sì. In Africa Centrale, quando tutto il resto è fallito, allora si passa al cannibalismo. Si mangia la carne dei nemici caduti per acquisire il loro potere. Se ci si identifica nella loro realtà, tutto questo ha pienamente senso. Io l’ho visto.’ ‘Cosa hai fatto?’ ‘Ho sparato loro.’ ‘Ma non hanno valore tutte le vite umane?’ chiede Frans. Il padre ride: ‘Alcune più di altre’ risponde, e indica il guardiano che fa il suo giro in giardino. ‘La tua vita ha più valore di quella del guardiano. Evita di affermare che tu la pensi diversamente.’ (...) ‘Ma come può essere, che i disordini in Africa diventino sempre così violenti? Che tutto sia così bestiale, così feroce?’ ‘Non è più feroce che in altri luoghi’ dice il padre. ‘Bambini-soldato, stupro, cannibalismo. È proprio disumano!’ dice Frans. ‘No,’ dice il padre. ‘È umano. Tu non credi che i bianchi possano fare queste cose?’ ‘È così difficile capire’, dice Frans. ‘Immagina te, qui in Tanzania. Sei un giovane uomo, sano e vispo. Non hai soldi per sopravvivere; meno di un dollaro al giorno. Non sai leggere né scrivere. Non conosci nessuna persona influente. Non c’è nessuna prospettiva di lavoro. L’unica cosa che hai da fare è stare per strada e osservare invidioso ogni macchina e ogni paio di scarpe eleganti che passano. E poi arriva un’autorità, che ti indica il nemico, il responsabile della tua situazione, e ti ordina di uccidere, e ti dice che puoi prima violentare e poi trafugare la vittima. Quindi che fai? Violenti e uccidi, ovviamente.’

‘Ma perché non facciamo niente per aiutare, in Occidente? Perché non cambiamo il sistema?’ chiede Frans.

‘È la realpolitik. L’Africa è imputridita da corruzione e nepotismo. Hanno le materie prime di cui noi abbiamo bisogno, e ce ne appropriamo come meglio è per noi. Noi occidentali partecipiamo a una festa, e la regola della festa è non preoccuparsi di coloro che non sono invitati. Di come stia il negro comune, siamo indifferenti, fino a quando ci nascondiamo dietro alla beneficenza, che contro- bilancia quello che rubiamo con l’altra mano. Noi li teniamo in pugno.’

‘Ma è ancora più bestiale, qui, quando c’è la guerra’, dice Frans. ‘Non è più bestiale uccidere con un machete che con un fucile. È solo più ravvicinato, più disorganizzato.’ Frans si alza senza proferire parola, comincia a barcollare verso la porta. Il padre gli grida contro: ‘Il mondo è logico. È tutto collegato. L’Unione Sovietica non ha valuta estera; gli aerei militari vengono affittati alle organizzazioni di soccorso occidentali per trasporti di emergenza; i piloti portano con sé le armi russe, che vendono ai ribelli. Quali ribelli? Ci sono sempre dei ribelli.” (Jakob Ejersbo, Eksil, Gyldendal, Copenaghen, 2009).

Haiku di Basho:

Erba d’estate ciò che resta dei sogni di tanti guerrieri.

Settembre 2015. Le frontiere sono abbattute da migliaia di rifugiati dalla Siria, Medio Oriente, Nord Africa, Africa Subsahariana. Migliaia e migliaia di migranti sfondano le frontiere dell’Ungheria, sbarcano sulle isole greche, a Lampedusa, attraversano a piedi l’Europa per raggiungere due paesi che li accolgono: Germania e Svezia. Donne che trainano valigie, padri con infanti in braccio, vecchi in un ultimo sforzo di vita, ragazzini che dovrebbero giocare in un kindergarten: li vediamo alla televisione, sui giornali, nei social media. Riempiono le autostrade e i sentieri campestri. È il momento della verità. Ci comporteremo come Creonte o come Antigone? Seguiremo le leggi dello stato o della nostra coscienza? Una foto pubblicata in numerosi giornali mostra il cadavere di Aylan Kurdi, un bambino siriano di tre anni, sbattuto dalle onde sulla spiaggia turca di Bodrum. L’immagine commuove l’Europa, le conseguenze politiche sono stupefacenti.

Wroclaw, ottobre. Riprendiamo le prove di Volare. Sono circondato da una mente collettiva, che oltre ai miei attori, consiste di una trentina di registi e attori invitati. Seguono le prove durante la giornata, e la sera si riuniscono con me per commentare, chiedere, suggerire. Il giorno dopo, provo regolarmente alcune delle loro proposte. A teatro una mente collettiva è un insieme di persone impegnate in un processo creativo che non mira a realizzare un progetto previamente definito. Una mente collettiva integra numerose specializzazioni, vari gradi di esperienza e diverse responsabilità in uno sforzo di integrazione simile a quello che avviene nella mente di un individuo nell'atto di inventare: cambi di direzione, deviazioni, utilizzazione di coincidenze ed effetti di serendipità, salti da un livello di organizzazione a un altro (livello pre-espressivo, drammaturgia organica, drammaturgia narrativa, modellazione dello spazio, dell’universo sonoro/ musicale). La mente collettiva opera con la stessa intensità di energia sia per programmare che per scoprire come distruggere creativamente i propri programmi.

Batuan, Bali, gennaio-febbraio 2016, prove di Volare. Mi sveglia all’alba il gamelan di un tempio vicino e la voce di un bramino che prega. Mi avvio alle prove stordito dalla fragranza che la natura spande nella stagione delle piogge. Quest’isola è così bella, e vorrei tanto poter inserire una scheggia di questa Bellezza nello spettacolo. A volte è stato insopportabile leggere le notizie dei giornali e la cronaca del mio tempo per travasarle nello spettacolo. Scrivo su un argomento che non piace a nessuno. Neanche a me. Ci sono temi che non piacciono a nessuno (Li Po). Il mio conforto è stata la bambina che sogna di volare e lottare contro il Barone Rosso. Anche i due monaci mi hanno aiutato con il loro eroismo ingenuo di piccole azioni.

Vedo nel Nouvel Observateur la foto del cinquantottenne artista cinese Ai Weiwei steso nella stessa posizione del bambino siriano Aylan Kurdi, questa volta su una spiaggia dell’isola greca di Lesbos. Ai Weiwei sta preparando una serie di progetti sui profughi in Europa. L’artista ha appena ritirato una delle sue opere dal museo ARoS di Århus in protesta contro le restrizioni delle nuove leggi di asilo votate dal parlamento danese.

Varsavia, maggio 2016. Ho deciso il titolo definitivo dello spettacolo: L’albero. Lo sapevo sin dall’inizio. Ma il titolo provvisorio - Volare - è stato generoso e ha contribuito immensamente alle nostre prove.

Lange Margrethe. Ingrid Hvass, la contastorie di Holstebro, ha letto la mia intervista in Holstebro Dagbladet. Vi racconto dei vari personaggi del nuovo spettacolo, tra cui il signore della guerra Joshua Milton Blahyi che sacrificava un bambino e ne divorava il cuore prima di una battaglia. Ingrid mi invia una storia che è avvenuta qui nello Jutland danese alla fine del 19° secolo. Nella brughiera intorno a Holstebro viveva Lange Margrethe, una donna che capeggiava una banda di delinquenti. Lange Margrethe aveva mangiato nove cuori di donne incinte perché credeva che così sarebbe diventata invulnerabile e invisibile. Catturata dalla polizia, morì in prigione.

È scritto nella Genesi: Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti” (Antico Testamento).

Nella mitologia nordica Yggdrasil è l’albero cosmico della vita al quale Odin (il dio, non il teatro di Holstebro) si appese per nove giorni e nove notti per padroneggiare la sapienza. Il suo nome significa “cavallo di Yggr”, dove cavallo è metafora per “forca”, mentre Yggr è uno dei tanti nomi di Odin. Le radici dell’immenso Yggdrasil affondavano negli inferi e i suoi rami sostenevano la volta del cielo. Sulla sua cima, era appollaiato il gallo d’oro Vidopnir il cui canto annuncerà il Ragnarok, la fine del mondo.

Un amico mi chiede se L’albero sarà il mio ultimo spettacolo. Scuoto la testa, ne sto immaginando un altro. Ad ogni modo ho già il titolo: Vedere rosso. Un giovane si sveglia una mattina e vede rosso, come se gli avessero incastonato due rubini negli occhi, o si trovasse al riparo in una lussuosa, stretta tenda di porpora. È la rabbia contro il mondo che gli fa vedere rosso? Sta annegando in un mare di sangue? È semplicemente diventato cieco?

I due terremoti dello spettacolo: quando comincio a sognarlo e quando lo devo abbandonare perché gli spettatori ne prendono possesso.


Novembre 2013 - settembre 2016

Eugenio Barba



The Tree and Its Roots
A performance that grows while reading newspapers


How should we represent a human sacrifice in theatre? Why should we do it at all? To exorcise our anguish? To show our indignation? As a kind of professional challenge? Because it is a fact defying our comprehension?

A man immolates coldly another man, a woman, a child: I want to make a performance which deals with this situation we read daily in the newspapers. “Flying” is the first word that passed through my mind as temporary working title. It opens up new ways of thinking as well as fresh images that might inspire actors and director in the first phase of rehearsals. The title of a performance is its premise. It should also be a promise and an invitation to flutter high up.

Theatre allows us to leave what we have and are familiar with for what we wish and what we ignore we know. It is a technique that helps us run away from home, and this fleeing builds a new home. One would imagine that the performance is the home, transient and capable of being moved to different places. And yet this is only the mirage of a home, an illusion like love or fame. The home of which I speak has flexuous foundations: the working relationships that ripen and evolve, regardless of time. The home is built with bursts of passion for the living and the dead. The passing of the years and experience transform these passions into confidence, tenderness and a feeling of belonging. It is a nomadism of bonds that time calcifies.

Judy had put aside an article by Jonathan Stock, published in Der Spiegel and later in the Danish daily, Politiken, in November 2013: “A cannibal and war criminal believes in God’s salvation.” Joshua Milton Blahyi, born in 1971 and dubbed General Butt Naked, commanded a small army of child soldiers during the civil war in Liberia in the 1990s. Noted for his brutal and eccentric ways, he led the attack of his young troops while totally nude, wearing only a pair of shoes. He sacrificed a human victim before going into combat, usually a child, whose blood would appease the spirits and render both himself and his young warriors invulnerable.

Blahyi took time to reflect when the nine members of the Truth and Reconciliation Commission inquired as to the number of his victims. “About twenty thousand.” he answered at last. Then he added: “I recruited children from nine to ten years of age. I instilled violence in them by explaining that what they were doing was a game. Whenever I wounded or killed an enemy, I opened his chest and devoured his still beating heart. I left the rest of the corpse to my child soldiers who would then cut it to pieces so as to become insensitive towards the enemy.” His child soldiers would wager as to whether the child of a pregnant woman would be a boy or a girl. They would then slash open the belly to see who was right.

After the civil war, Blahyi converted to Christianity and became an evangelical minister. He is currently the president of Endtime Evangelical Ministries Inc. in Liberia. He is married to Pastor Mrs. Josie and has four children.

Stephen Ellis, in his book The Mask of Anarchy. The Destruction of Liberia and the Religious Dimension of an African Civil War, writes about the inter-tribal war in Liberia, 1989-2003: 250,000 deaths, a million persons fleeing the country, 20,000 child soldiers cover their faces with Halloween masks and women’s wigs, devouring the hearts of their victims and decorating the crossroads with bones of the dead. The generals of the various factions take their names from the world of film, newspapers and religion: General Rambo, General Bin Laden, General Satan. The writer describes the central role religion plays in rituals encouraging the intensification of brutality in this war: “The spiritual preparation of the recruits was at least as important as their military training. Part of their preparation consisted of rituals reminiscent of traditional ceremonies of initiation. The young warriors got tattoos on their foreheads or slashes on their cheeks so as to make themselves invulnerable. Sometimes they were shot at with blanks they thought were real, to convince them of the efficacy of this form of protection.

Nando Taviani, our literary adviser, tells me the story of a farmer who has a pear tree that no longer bears fruit. He fells the tree and constructs, from its wood, a crucifix with the Saviour upon it. His son becomes gravely ill. The farmer kneels before the cross and implores Christ to save his sick son. The son dies. The farmer rails: “When you were a pear tree, you gave no fruit. Now, you bear the Son of God, and yet you don’t make miracles.” The farmer goes away. The crucifix flowers and is covered with pears.

First narrative sketch: A farmer believes he is Christ and plants a pear tree. The tree grows although it is dead. The farmer makes a cross out of its wood and crucifies himself. The mother of a child soldier carries her dead son and begs him to revive him. Blahyi, the warlord of the Liberian war, arrives. Like Dostoyevsky’s Grand Inquisitor, he sends her away. The tree/crucifix flourishes and is covered with pears.

Another possibility: The farmer, hanging on the cross, suggests to the mother holding the corpse of her son in her arms: “Bury your dead and let him be born again as flowers and fruit.” The tree is a living sculpture. It grows before the eyes of the spectators, like a standing corpse. A girl climbs among its branches, playing, dreaming, gazing towards the horizon, speaking to the birds. The tree is felled by an ax. A broken branch, somewhat askew, like a cross lying in wait for the first innocent who might come along. The tree groans when it is struck. It bleeds: white blood, thick and slimy like pus. A child soldier appears. He oozes white blood. He embraces the tree. The tree flourishes.

It could be the tree of goodness. A good little boy is chained to it like a dog. He dreams of what a wicked child does. The good child is the voice of hope. He barks: “This leafless tree will nourish humanity”. A little girl in the tree plays with her dolls, telling them fairy tales and singing a lullaby to make them fall asleep.

The tree in Japan. Three haikai by Basho:

Weary in search of a place to lay my head I find myself beneath the blossoms of a tree.

Beneath the tree everything is covered by cherry petals even the soup and the pickled fish.

The spring has gone weeping of birds in the trees and tears in the fishes’ eyes.

I have found the second character of Flying: a European warlord. The Serbian Željko Ražnatović (1952-2000), known as Arkan, the tiger. During the 1970s and 1980s, he was the most wanted criminal on Interpol’s list, owing to his numerous bank robberies and murders in various European countries. A killer for the secret police in the former Yugoslavia, his job was to liquidate exiled enemies of the regime living abroad. During the disintegration of Yugoslavia in the 90s, he created a para-military force of young men, known as Arkan’s Tigers, who carried out the first massacres of ethnic cleansing and participated in many other atrocities together with the Serbian army. Arkan was regarded as the most ruthless and powerful of all the Balkan warlords. The United Nations accused him of crimes against humanity. He was assassinated in 2000. Over 200,000 civilians were killed in Bosnia and Croatia. Tens of thousands of women were raped, some more than a hundred times, while their husbands and sons were beaten and tortured in the concentration camps of Omarska and Manjaca. Millions abandoned their homes during the course of the ethnic cleansing.

The massacre of Srebrenica was the worst example of ethnic cleansing since World War II. The massacre began on July 6, 1995, when Serbian troops, under the orders of General Ratko Mladic and Arkan’s Tigers, initiated an offensive against the predominantly Muslim town of Srebrenica. The men were separated from the women and, during the single day of July 11, over 8,000 males were summarily executed. According to numerous international organi- sations, the number of male deaths probably exceeded ten thousand.

Srebrenica was the world’s first United Nations “Safe Zone”. The Dutch troops (Dutchbat), stationed there to protect local civilians, handed over, at the request of Serbian troops, some 300 Muslim refugees who were subsequently massacred. According to witnesses, the Dutch battalion assisted the Serbians in separating women, children and the elderly from the men who were murdered. During the 1990s, the Dutch press brought a number of heated accusations against Dutch troops stationed in Bosnia. Many soldiers suffered from post-traumatic stress syndrome upon their return to the Netherlands. On December 5, 2006, the Dutch Minister of Defense awarded some 500 medals to peace-keeping troops whose task it had been to protect the civilians of Srebrenica. On July 16, 2014, a court in the Netherlands ruled that the Dutch battalion of blue helmets, deployed to protect the Muslim enclave, failed to adequately protect civilians. The Dutch state could therefore be held responsible for the ensuing deaths.

A bit of philosophy. The role Aristotle assigns to theatre: to confront the spectators with the compassion and horror of the human condition. He almost seems to be a contemporary of Brecht. Or do I perhaps misread something?

Decapitations. My whole culture is full of heads that have been cut off. I have admired them as works of art in museums that are the pride of the European capitals. Perseus and the Medusa, Judith and Holofernes, the beheadings by Achilles, Agamemnon, Diomedes, Patroclus (in the Iliad), Salome and John the Baptist, Cicero (also his hands were cut off), St. Paul, Anne Boleyn, Thomas More (the ingenious inventor of Utopia), Mary Stuart, André Chenier, Danton and Robespierre (liberté, égalité, fraternité). Considered both speedy and without disgrace, in ancient Rome decapitation was a form of execution granted only to Roman citizens. For slaves, thieves and foreigners was reserved the punishment of crucifixion. In Europe, decapitation was considered as an “honourable” form of execution up to the early 19th century, something only for the nobility, while the bourgeoisie and the poor were punished with more painful methods such as being drawn and quartered.

Benvenuto Cellini’s statue of Perseus holding Medusa’s head (Florence)

Le Monde, August 3, 2014. In northern Iraq soldiers of IS, Islamic State, have attacked and occupied the city of Jabal Sinjar, whose inhabitants are predom- inantly Yazidi. The soldiers of IS are burying alive women and children, slaugh- tering men and the elderly in a massacre that is called genocide. About 200,000 people seek refuge in the mountains, with no food or water. In the village of Kojo, the population has been given an ultimatum by the jihadists to either convert or to die. Many elderly citizens refuse and are shot. Thousands of women and children are kidnapped, given as war booty to jihadist soldiers or sold as slaves. The women are often raped; they are checked by doctors to determine whether they are virgins or pregnant. Who are these Yazidi? A religious minority from the districts of Mosul (Iraq), Diyarbakir (Turkey), Aleppo (Syria), Armenia, the Caucasus and Iran. Their religion combines Zoroastrian, Manichean, Hebraic, Christian and Islamic elements (Encyclopaedia Britannica).

Two more characters of Flying. Two Yazidi monks, who live in a hermitage in the Syrian desert, discover that the birds have flown away. To entice them to return, they plant a tree that will give both nourishment and shade. They water it, fertilise it and pray for it. The tree grows, mighty and majestic. But it is a dry tree without life. The two monks busy themselves with the task of bringing the tree back to life so that it will flourish and bear fruit. They chant, do penance, build nests and dedicate themselves to archaic rituals of magic. Around them, feats of war and shameful barbarity unfold imperturbably.

The Danish daily, Politiken, January 21, 2015. Demonstrations against France in Pakistan, Iran, Chechnya and in various African countries caused by the drawings of Muhammed in Charlie Hebdo. In Gaza, the French flag is burned in the streets. In Niger, Catholic churches are burnt and Christians killed in the streets.

First rehearsals of Flying (Colombia, February). I watch my actors as they approach their roles. They move cautiously, almost self-effacingly, around the dead tree of the Yazidi monks. This is the pledge of a performance which should insert a thorn into our certainties. It was the Mapuche or the Haida who said: Trees are the pillars of the world. When the last tree is cut down, the sky will fall upon us.

The poets say: Forests came before people. Deserts followed people (François-René Chateaubriand). The sleeping tree pronounces green oracles (Octavio Paz). The fruit is blind. The tree sees. (René Char).

We watch the performance and the performance watches us. This twofold vision - this awareness barely intuited - generates a light and disturbs. To recognise, associate, understand and organise data and occurrences which the senses have registered and memory has stored - the human brain never ceases to work in this way. It is a natural reflex for the spectator to try to grasp the general idea of a performance, to know what it is about, who is telling the story, who is this character, why she is saying something and what is she doing. This cognitive process provides security and gratification. And yet that which transcends this process of comprehension and makes a theatre performance the experience of an experience, is the organic animal property of the actors. It is their ability to give life to a dense fabric of sensory details that strike the reptilian and limbic part of the brain of each spectator. Apparently incoherent gestures within the context of a given situation, movements that are enigmatic or only faintly recognisable, bewildering rhythms and particular forms and colours, the orchestration of words, sounds, assonances and intonations, the score of actions-reactions as a discontinuous musical line, simultaneity and succession of images, concepts, events, silence and immobility, the plurality of rhythmic contrasts – all this creates a flow which prevents the spectators from fully grasping what is taking place, and pushes them to scrutinise a particular detail for a long time while awakening the reflex to be on their guard. This jungle of details generates the true vision of the performance, a disjointed vision that cannot be tamed by way of conceptual explanations. This vision belongs to the solitary dialogue which each spectator has with himself or herself during and after the performance. The spectator, much like an entomologist, has a dialogue with the colours, the patterns and the beatings of the wings of the butterflies which his small net managed to capture.

Experts write of Velázquez that he was able to paint the air. In his paintings, the Spanish artist created a void around the figures and material things that appeared to be suspended in the air, while the background was neutralised thanks to a refined blending of elusive colours. In theatre, how can we create a similar effect of a void around the essential?

An actor does physical and vocal training every day. But what is the training of a director? I answer: I read a lot of all kinds of things. Thus, by chance or by destiny, a novel arrived in my hands: Half of a Yellow Sun by Chimamanda Ngozi Adichie (Fourth Estate, London, 2014). The action takes place during the Nigerian civil war (1967-1970) following the secession of the ethnic Igbos who themselves proclaimed the Republic of Biafra. The subsequent measures taken by the central government of Nigeria brought about a condition of famine that decimated the population of entire regions. The non-governmental organisation, Doctors Without Borders, was founded in 1971 by Bernard Kouchner and a number of French doctors, as a consequence of their experiences in Biafra.

A new character of Flying appears from a page of Chiminanda Ngozi Adichie’s novel: “Olanna sat on the floor of the train with her knees drawn up to her chest and the warm, sweaty pressure of bodies around her, among crying, shouting, and praying people. The train was a mass of loosely held metal and each time it jolted, Olanna was thrown against the woman next to her, against something on the woman’s lap, a big bowl, a calabash. The woman was silent, caressing the covered calabash on her lap in a gentle rhythm. Her wrapper was dotted with splotchy stains that looked like blood. A young man in front of her screamed and placed his hands on his head. The train swerved and Olanna bumped against the calabash again. The woman with the calabash nudged her, then motioned to some other people close by. ‘Come’, she said. ‘Come and take a look.’ She opened the calabash.

Olanna looked into the bowl. She saw the little girl’s head with the ash-grey skin, the scruffy plaits, eyes completely white, eerily open, a mouth like a small surprised O. She stared at it, somebody screamed. The woman closed the calabash. ‘You know’, she said, ‘it took me so long to plait this hair. She had such thick hair.’

After he writes this, he mentions the German women who, after the allied bombings in 1944, fled Hamburg with the charred bodies of their children stuffed in suitcases, the Rwandan women who pocketed tiny parts of their mauled babies. But he is careful not to draw parallels." (Chimamanda Ngozi Adichie: Half of a Yellow Sun, Fourth Estate, London, 2014).

This anonymous Igbo mother has slipped in among the characters of Flying. Her name is Fury. She is a Christian Igbo who is fleeing a massacre carried out by Hausa Muslims. She is looking for a place of refuge for herself and her daughter’s head. She can only snarl: “There is no death in this world, only forgetfulness.”

Trees in China. A falling tree makes more noise than a growing forest (Lao Tzu). The best time to plant a tree is now (Confucius).

Africa: trees and rituals. “A dramatist by profession, I am most partial to rituals. There is, however, one I would rather the world had never known. This ritual took place on the coast of the ancient city of Ouidah, in the present-day Republic of Benin, and its centrepiece was a tree named the Tree of Forgetfulness.

The function was this: when slaves were brought from the inland towns and settlements of West Africa, usually victims of wars and raids instigated for that very purpose, they were placed in stockades, forts and castle dungeons. Then before embarcation, they were subjected to a ritual process which included moving in circles around the infamous tree. The purpose was to make them forget their land, their homes, their kinfolk, and even the very occupations they once knew. In short, to forget their former existence, wipe their minds clean of the past and be receptive to the stamp of strange places. These flesh merchants of their own kind understood that their act constituted a profound transgression, and they moved to thwart anticipated reprisals through the ritual process.

Never was optimism more misplaced. As a ritual, it was a complete failure. Those slaves never forgot. How many of such trees exist, even symbol- ically, all over the landscape of other peoples, other races and nations?” (Wole Soyinka, Of Africa, Yale University Press, New Haven and London, 2012).

It’s impossible to unlearn. I have spent half my life trying to learn, and the other half struggling to go beyond what I have learned. Reflections, thoughts, methods and solutions return constantly in my work with a recognisable taste. I feel that it is part of the human condition to belong to the family of the trees which change their leaves and retain their roots. I try to modify my ideas, express them in a different form, rhythm and manners, to use my knowledge in a paradoxical way. But the roots sink firmly into the depth of my being.

Picasso was fond of saying that every act of creation takes place through a succession of destructions. The word destruction is dramatic and evokes ruin and death. Yet it is undeniable that an irrepressible alternation of erosions and distillations - a process of transmutation - accompanies the rehearsals of a performance. On the one hand, we sense growth, depth and complexity; on the other we witness a freeing up of perspectives and correspondences that upset (destroy: i.e. recreate differently) the results of previous phases. In the beliefs of ancient Egypt, Greece and medieval Europe, there were three basic stages in the transmutation of matter: nigredo, or blackening, by which matter is dissolved and putrefied; albedo, or whitening, by which the substance is purified and sublimated; rubedo, or reddening, a stage in which the elements are fixed, assuming a re-composition whose nature is unrecognisable. There is a strange analogy between the principles of an actor’s work and that of an alchemist. I admit it, now that I am in the twilight of my career, since I have always smiled, somewhat condescendingly, at Artaud’s ideas. The essential aspects of theatrical processes take place within a secret zone that is absolutely impenetrable even to the understanding of the author, the director or the actor. This is a mute zone. Notwithstanding our intuitions and certainties, there is no way to speak of it because there is no verifiable proof for those who have not undergone the same experience.

Child soldiers and cannibalism. A couple of pages from Jakob Ejersbo’s novel: “Francis is a little inebriated now. Enough so that he wants to hear about his father’s work. ‘In Africa,’ Francis says, ‘did you meet any child soldiers?’ ‘Yes, there are always child soldiers,’ his father says. ‘Why is that?’ ‘The younger they are the better. Young men can’t imagine they can die.

And there is a mixture of ignorance and religion thrown in.’ ‘But... did you fight against children. Did you shoot at them?’ ‘What’s the choice when twenty twelve-year-olds come towards you with machetes and AK47s? Would you call UNICEF? The boys think that my bullets won’t hurt them. That is what the witch doctor tells them. And he is a man of great authority.’

‘But they see their comrades die.’ ‘Yes, but they also know that they will be killed by their own officers if they don’t carry out the attack,’ the father says. ‘They are also on drugs,’ Alison says. ‘Yes, that’s true. Drunk and fucked up. I mean, Francis, you see these boys as boys who play with toy trains. Basically good kids. But these boys have seen their families murdered. They have been encouraged to rape the grown women they kidnap from their own villages. They have been forced into cannibalism. They are no longer boys.’

‘Cannibalism?’ ‘Yes. In Central Africa, after everything has broken down, cannibalism starts. You eat the flesh of the enemy you have killed to absorb his power. If you try to imagine their reality, it makes some kind of sense. I have seen it.’

‘What did you do?’ ‘Shot them.’ ‘But isn’t every human life precious?’ Francis asks. His father laughs: ‘Some more than others’, he says and points over to the guard making his rounds in the garden. ‘Your life is worth more than that guard’s.

Don’t kid yourself that you think otherwise.’ ‘But why do the conflicts in Africa get so crazy. Why are they so barbaric, so cruel?’ ‘They are no more cruel there than in other places,’ says his father. ‘Child soldiers, rape, cannibalism. It is so... inhuman’, Francis says. ‘No’, his father says, ‘It is very human. You don’t think white men could do such things?’ ‘It is just so hard to understand,’ Francis says. ‘Try to imagine how you would be here in Tanzania. You are a young man, healthy and full of life. You don’t have any money to live on; less than a dollar a day. You can neither read nor write. You don’t know anyone in a position of power. You have no chance of getting a job. All you do is hang out on street corners and gaze with envy at every automobile and every pair of fine shoes that passes by. Then some authority figure comes along and he points at the enemy who is responsible for your situation. He orders you to murder and he tells you that the first thing you must do is to rape, and then you can take the property of the ones you murder. What would you do? Rape and murder, of course!’

‘But why don’t we, in the West, do anything to help?’ Francis asks. ‘This is realpolitik. Africa is infested with corruption and nepotism. They have raw materials that we want and we take them whenever we feel like it. We, as westerners, are at a party, and the thing about parties is you don’t think about anyone who isn’t invited. We are totally indifferent to the lives of the average negro, as long as we have our fig leaf in the guise of a little assistance here and there. It is more a question of what we steal with the other hand. We have them by the balls.’ ‘But it still seems more bestial. I mean here, when there is war,’ Francis says.

‘It is no more bestial to kill with a machete than it is to kill with a rifle. It is just closer, more of a mess.’

Francis gets up from his chair without saying a word. He staggers towards the door. His father yells after him: ‘The world is logical. It makes sense. The Soviet Union needs foreign currency; military transport planes are leased to western relief organisations for emergency aid; the pilots take Russian weapons they can sell to the rebels. What rebels? There are always rebels of some kind'." (Jakob Ejersbo, Eksil, Gyldendal, Copenhagen 2009, pp.209-210).

A haiku by Basho:

Summer grasses what remains of the dreams

of so many warriors.

September 2015. The borders have been torn down by thousands of refugees from Syria, the Middle East, North Africa, Sub-Saharan Africa. Thousands and thousands of migrants break down the Hungarian borders, disembarking on the Greek isles, the Italian Lampedusa. They cross Europe on foot in order to reach the two countries willing to accept them, Germany and Sweden. Women dragging suitcases, fathers with infants in their arms, old men and women, frail in the final exertion of their physical powers, children who should be playing in kindergartens. We see them on television, read about them in the newspapers and follow them in the social media. They fill the highways and small country tracks. This is the moment of truth. Will we behave like Creon or Antigone? Will we follow our own conscience or the laws of the state? A photograph published in most newspapers shows the body of Aylan Kurdi, a three-year-old Syrian child, his small corpse beaten by waves on the Turkish beach of Bodrum. The image touches the heart of Europe. The political consequences are stupefying.

Wroclaw, October. We resume rehearsals of Flying. I am surrounded by a “collective mind” which, in addition to my own actors, consists of thirty or so invited directors and actors. They follow the rehearsal throughout the day and then they all meet with me in the evening to comment, ask questions, make suggestions. The following day, I try out some of their proposals. In theatre, we can speak of a collective mind when an ensemble of motivated people is engaged in a creative process which doesn’t aim at realising an already clearly

defined project. A collective mind integrates different specialisations, various degrees of experience and diverse responsibilities in an assembling process similar to what happens in the individual mind in a process of invention: sudden changes of direction, detours, exploitation of serendipitous effects, leaps from one level of organisation to another (from the pre-expressive organic level, to the narrative one, shaping of the space, of the sound/musical universe, etc.). The collective mind operates with the same amount of energy in programming as in knowing how to creatively demolish its own programmes.

Batuan, Bali, January-February 2016. Rehearsals of Flying. I wake up in the early morning to the gamelan music of the neighbouring temple and to the voice of a praying Brahmin. I begin the rehearsals, dazed by the humid fragrance of life that nature spreads about during the rainy season. This island is so beautiful. I would like to insert a sliver of its beauty into our performance. Sometimes I can’t bear to read newspaper articles with the chronicles of our times, and to pour these into the performance. I write about a subject everybody dislikes. Even I. There are subjects nobody likes. (Li Po). My solace has been the little girl who dreams of flying and fighting the Red Baron. Also the two monks helped me as well, with their naïve heroism of small acts.

I notice a photograph, in Le Nouvel Observateur, of the fifty-year-old Chinese artist, Ai Weiwei, in the exact same position, as the Syrian boy, Aylan Kurdi, this time on a beach on the island of Lesbos. Weiwei is preparing a series of projects throughout Europe about refugees. He has just withdrawn one of his works from AroS museum in Århus, in protest against the new laws approved by the Danish parliament, restricting the rights of asylum seekers.

Warsaw May, 2016. The final title for the performance is to be: The Tree. I somehow knew this all along. And yet, the alternative title, Flying, has been generous and has contributed immeasurably to all of our rehearsals.

Lange Margrethe. Ingrid Hvass, a storyteller from Holstebro, read my interview in Holstebro Dagbladet. There, I spoke about the different characters in the new performance. One of them, Joshua Milton Blahyi, sacrificed children and devoured one of their hearts before a battle. Ingrid sent me a story that took place in Jutland, Denmark, in the late 19th century. On the heaths around Holstebro, there lived a woman who went by the name of Lange Margrethe. She led a band of lawless thugs. Among her accomplishments was the fact of having eaten the hearts of nine pregnant women, since she believed that this would render her invulnerable as well as invisible. She was captured by the police and died in prison.

It is written in the Genesis: And the Lord God put man in the Garden of Eden, so that he might cultivate it and look after it. The Lord God gave this command to him: “Of every tree in the garden you may eat freely. But of the tree of the knowledge of good and evil, you shall not eat of it. For on the day that you eat thereof, you shall surely die.” (Old Testament).

In the Nordic mythology, Yggdrasil is the cosmic tree of life to which Odin (the god, not the theatre of Holstebro) hung for nine days and nine nights in search of higher wisdom. The name means “horse of Yggr”, where horse is a metaphor for gallows, while Yggr is one of the many names of Odin. The immense Yggdrasil’s roots went down into the lower realms, while its branches supported the entire sky. On its top stands the golden rooster Vidopnir whose song will announce Ragnarok, the end of the world.

A friend asks me whether The TreeM will be my last performance. I shake my head; I am thinking of another one. In any case, I have a title: Seeing Red. A young man one morning wakes up and sees red as though rubies were set in his eyes or as though he were within the shelter of a luxurious enclosed pavilion of purple. Is it anger against the world that makes him see red? Is he drowning in a sea of blood? Or is he simply going blind?

The two earthquakes of the performance: when I begin to dream of it, and when I let go of it because the spectators take possession of it.


November 2013 - September 2016

Eugenio Barba



Copyright © Eugenio Barba. Translation copyright © Gordon Walmsley